CARTA DA PARATI


A me piace principalmente l’arredamento essenziale, pochi mobili e linee semplici. Funziona, ma a volte lascia pareti vuote e io non amo le pareti vuote e neppure quelle bianche. Se poi sono vuote e bianche le detesto proprio. Posso accettarle solo appena dopo il trasloco, dopo di che bisogna liberare dagli scatoloni quadri, quadretti, foto, poster, ritagli di giornali, immagini di vecchi calendari, cartoline, broschure, depliant…tutto ciò che si potrebbe appendere. E poi attaccare con chiodi e martello, con logica e ordine o a casaccio, come viene viene. Vedrete che bello vedere le pareti che prendono vita sotto le vostre mani ed è ancora più bello vedere gli ospiti che in casa tua le osservano a bocca aperta come se fossero i muri di un museo, non è detto che gradiscano, ma di sicuro si guarderanno in giro affascinati. Chiaramente è un’operazione da ragionare, servono criteri di selezione e senso di equilibrio per saper distinguere gli ambienti dove riempire da cima a fondo le pareti e quelli dove basta arricchirne minime porzioni.

É un periodo, però, in cui sto rivalutando la carta da parati. Riesce a dare effetti veramente entusiasmanti, valorizza l’arredamento, caratterizza l’ambiente, dona ritmo scandendo il muro con forme e colori. Questo vuol dire, ad esempio, che basterebbe una bella carta da parati colorata, un paio di sedie, un tavolino e poco altro per arredare con originalità e completezza un ingresso. Ma la cosa più bella è che si potrebbe applicare ovunque, in ogni ambiente della casa, chiaramente alternando fantasie semplici e sobrie ad altre molto decise e dal forte impatto.

Poi è chiaro, dipende dalla casa e dalla personalità di chi vi abita…

Esagerata ed esageratamente bella!

Verticalmente colorata

Sobria e raffinata

Si adatta...

Piena di fascino

RIFLESSIONI SULL’ARCHITETTURA


Sul mondo dell’architettura ci sarebbero tante, troppe cose da dire e infiniti argomenti da affrontare e il rischio di affogare inopportunamente in nozioni troppo tecniche e accademiche è decisamente alto. La mia intenzione è infatti quella di disporre delle mie conoscenze per discutere di ciò che l’architettura rappresenta, del suo significato, della sua essenza e di ciò che essa può esprimere, non di “dare insegnamenti”; la finalità di questo tipo di trattazione è quella di coinvolgere un pubblico non necessariamente esperto e che possa intervenire esprimendo le proprie opinioni, che possa entusiasmarsi alla materia pur non avendo avuto una formazione universitaria o professionale.

Sento il bisogno e il dovere di citare, seppur brevemente, Vitruvio, architetto, teorico e primo trattatista della storia dell’architettura, uomo dal pensiero incredibilmente attuale e profondamente moderno, nonostante la sua attività risalga al I Sec. a. C. Attraverso lo studio dell’architettura Greca e Romana egli sostenne che “l’architettura è una scienza”. Non è un concetto così ovvio perché racchiude in sé molto altro: l’architettura non è una tecnica che si può apprendere sui manuali, non è solo “l’arte di edificare” e non riguarda solo teorie, progettazione e costruzione di edifici. L’architettura è dunque una scienza e pone fondamento in tante altre scienze, dalla geometria, alla matematica, alla medicina, all’anatomia, alla legge, all’astronomia, all’ottica e all’acustica.

Questo breve cenno mi ha fatto rispolverare la mia prima lezione all’università di storia dell’architettura: ricordo bene il fremito di quella mattina nell’ascoltare e prendere appunti rendendomi conto che stavo avendo il privilegio di immagazzinare nella mia testa tutte quelle cose dal significato eterno ed universale. Con il passare del tempo, più o meno dalla seconda metà del mio percorso universitario, probabilmente più consapevole di quanto avevo appreso e di quanto continuavo ad apprendere, ho maturato l’idea che un architetto deve necessariamente conoscere e saper applicare tutte le quelle scienze che Vitruvio aveva sostenuto essere parti integranti dell’architettura, ma deve possedere anche un’innata sensibilità che lo renda interprete dei bisogni, della cultura, della tradizione di un popolo e delle caratteristiche di un luogo, affinché tutto questo si rifletta nella sua l’opera.

Attenzione, ho parlato di sensibilità e non di aspetti soggettivi! Si tratta di una predisposizione mentale che fa sì che ad un architetto risulti naturale avere ciò che io chiamo “anteprime mentali”: ciò vuol dire “vedere” nella propria testa le soluzioni prima della loro realizzazione, attraverso immagini che paiono già così nitide e chiare da sembrare reali. Dunque si possono elaborare progetti, studiarli, correggerli e ricorreggerli, quasi conoscendo già con discreta sicurezza quale sia il risultato concreto.

Inizialmente ero convinta che si trattasse di normali elaborazioni mentali che chiunque può avere spontaneamente, invece ho capito che non è così, che non tutti riescono a “vedere prima” i risultati e che probabilmente è questo che fa la differenza tra una persona predisposta a fare buona architettura e una che non lo è.

Le “anteprime mentali” possono nascere sì senza grandi sforzi, ma mai dal nulla, non sono fasi istintive e non si raggiungono “a sensazione”: affinché si manifestino è necessaria prima di tutto l’analisi preliminare e meticolosa di ogni dettaglio, lo studio, le ricerche sui luoghi e sulle persone, perché solo così si può immagazzinare una serie di informazioni indispensabili per trovare la soluzione giusta.

Da un corretto e quanto più approfondito studio scaturisce facilmente un opera funzionale, oggettivamente bella, profondamente espressiva e in qualche modo unica.